PRESENTAZIONE*
di Franco Tassi
* Viene qui riportata la
presentazione nel testo originale presente nell'edizione pubblicata nel DVD
del 2010.
Quest’opera è dedicata a uno dei gruppi di Coleotteri
più famosi, e più interessanti, numerosi e vari dello sterminato mondo
animale: gli Scarabaeoidea, noti in lingua italiana come
Lamellicorni, e in inglese come Beetles, o Scarab-Beetles: caratteristici
per le antenne composte di lamelle, ma per il resto con straordinaria
varietà di dimensioni, forme, colori, abitudini ed ecologia.
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Trypocopris vernalis |
Su questi piccoli animali si
potrebbe scrivere non un solo libro, ma una intera Scarabeopedìa, sul
modello di una recentissima Insectopedìa inglese, che spazia ben
oltre gli aspetti strettamente biologici, sistematici e faunistici
estendendo lo sguardo a storia, costume, cultura, folclore, aneddotica e
cronaca.
UOMINI E
SCARABEI
Al di là della passione naturalistica e della ricerca
scientifica la storia dei rapporti tra uomini e scarabei è
costellata di episodi la cui narrazione meriterebbe un intero
trattato. Molti conoscono racconti come “Lo Scarabeo d’oro” di Edgar
Allan Poe e “La Metamorfosi” di Kafka (che in verità si riferisce
al meno nobile scarafaggio), ma la storia più incredibile è anche
quella meno conosciuta, e va quindi raccontata. Ce la riferisce con
il suo piacevolissimo stile, nel Viaggio in Sicilia del 1885, uno
dei padri del racconto moderno: Guy de Maupassant.
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La
Polifilla del Ragusa, di cui qui vediamo una femmina
dalle antenne piccole, vive presso la costa della
Sicilia sudorientale, con una sottospecie denominata
aliquoi in onore del suo scopritore, l’entomologo
siciliano Vittorio Aliquò. |
“Ecco una delle ultime avventure da mettere sul conto dei vagabondi
malvagi. La garantisco come vera.
Un distinto entomologo di Palermo, il Signor Ragusa, aveva
scoperto un coleottero che fu a lungo confuso con la Polifilla di
Olivier. Ora uno scienziato tedesco, il Signor Kraatz, riconoscendo
che apparteneva a una specie distinta, desiderò possederne alcuni
esemplari e scrisse a uno dei suoi migliori amici di Sicilia, il
Signor Di Stefani, il quale si rivolse a sua volta al Signor
Giuseppe Miraglia, pregandolo di catturare per lui alcuni di questi
insetti. Ma essi erano scomparsi dalla costa. Proprio in quel
momento il Signor Lombardo Martorana, di Trapani, annunziò al Signor
Di Stefani che egli aveva appena preso più di cinquanta Polifilla.
Il Signor Di Stefani si affrettò ad avvertire il Signor Miraglia
con la lettera seguente: “Mio caro Giuseppe, la Polifilla di Olivier
avendo avuto conoscenza delle tue intenzioni assassine, ha preso
un’altra strada ed è andata a rifugiarsi sulla costa di Trapani,
dove il mio amico Lombardo ne ha già catturato più di cinquanta
esemplari”.
Qui l’avventura prende pieghe tragicomiche d’una
inverosimiglianza epica.
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La
Polifilla del Ragusa, presente presso la costa della Sicilia
nordoccidentale: il maschio è caratteristico per le grandi
antenne a lamelle, capaci di avvertire la presenza della
femmina anche a notevole distanza. |
Sembra che all’epoca i dintorni di Trapani fossero percorsi da un
brigante chiamato Lombardo.
Ora il Signor Miraglia cestinò la lettera del suo amico. Il
domestico svuotò il cestino nella strada; poi passò lo spazzino e
gettò nei campi ciò che aveva raccolto. Un contadino, vedendo per
terra una bella lettera azzurra appena sgualcita, la raccolse e se
la mise in tasca, per precauzione o sperando in qualche guadagno.
Trascorsero parecchi mesi; poi l’uomo, che era stato chiamato in
questura, lasciò inavvertitamente cadere questa lettera a terra. Un
gendarme la raccolse e la presentò al giudice, il quale rimase
sorpreso dalle parole: “intenzioni assassine, preso un’altra strada,
rifugiati, catturati, Lombardo”. Il contadino fu imprigionato,
interrogato, segregato. Non confessò niente. Lo si sorvegliò e venne
aperta una severa inchiesta. I magistrati pubblicarono la lettera
sospetta, ma siccome avevano letto Petronilla al posto di Polifilla
gli entomologi non si scomposero.
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Questa
tavola, creata dal naturalista siciliano Fabio Grosso,
rappresenta bene la storia incredibile dell’uomo che, per
uno strano equivoco riguardante la Polifilla, venne
imprigionato per tre mesi. |
Infine si finì col decifrare la firma del Signor Di Stefani, il
quale fu chiamato in tribunale. Le sue spiegazioni non convinsero.
Il Signor Miraglia, citato a sua volta, riuscì a chiarire il
mistero.
Il contadino era rimasto tre mesi in carcere.
Uno degli ultimi briganti siciliani fu pertanto, in verità, una
specie di maggiolino conosciuto dagli uomini di scienza sotto il
nome di Polifilla del Ragusa.”
Libera traduzione di Franco Tassi,
riadattata in base alla nomenclatura semplificata utilizzata nella
Presentazione |
Poche citazioni possono rendere
l’idea della biodiversità, e cioè della ricchezza e varietà di specie dei
Coleotteri, meglio di quella riferita al biologo inglese John Burdon
Sanderson Haldane il quale, a chi gli chiedeva cosa avesse in mente il
Creatore mentre dava vita alla materia, rispose serissimo: “Una smodata
passione per i Coleotteri!”. Qualcuno dubita che lo scienziato abbia potuto
esprimersi così: ma certo questo aforisma, che circola ampiamente negli
ambienti entomologici, colpisce e fa riflettere.
E’ noto che finora sono state
descritte oltre 350.000 specie di Coleotteri, al ritmo di circa cinque al
giorno, e si stima che oggi si conoscano nel mondo circa 35.000 specie di
Scarabeoidei (ma certamente sono assai di più, considerando quelle ancora da
scoprire e denominare), di cui oltre 350 vivono in Italia. Il nostro Paese
ospita quindi l’1% dell’intero gruppo e i nostri Scarabei – così chiameremo
da questo momento, per praticità divulgativa, i Lamellicorni – rappresentano
la millesima parte dei Coleotteri finora noti alla scienza.
Questo intenso lavoro di studio,
ricerca, raccolta, classificazione e fotografia promosso dall’attivissimo entomologo
Alberto Ballerio, con l’aiuto di valenti colleghi come Antonio Rey, Marco
Uliana, Marco Rastelli, Sergio Rastelli, Marcello Romano e Loris Colacurcio,
ha richiesto notevole tempo, impegno e dedizione, e offre un quadro
assolutamente innovativo di uno dei più importanti gruppi zoologici.
Un’opera del genere arricchisce e nobilita la serie delle Piccole Faune,
offrendo agli appassionati, dilettanti e professionisti un ottimo strumento
per riconoscere a classificare ogni specie di autentico Scarabeide (Scarabei
veri e propri), o di Lucanide (Cervi volanti) nel modo più semplice, rapido
e attendibile.
***
Il
rapporto dell’uomo con lo Scarabeo nasce fin dai primordi della storia, e
certo si tratta degli insetti più osservati, considerati e rappresentati già
millenni or sono. Nell’Egitto dei Faraoni lo Scarabeo coprofago, detto
stercorario perchè si nutre degli escrementi di vari animali, era
considerato sacro, simbolo del sole e della creazione. Evocava, con la vita
che rinasce dalla materia non vivente, il mito dell’eterno ritorno.
Raffigurato in ogni iscrizione e sepoltura, era ritenuto tanto importante da
essere collocato nel sito più venerato: il cuore del Faraone. Splendidi
scarabei in pietre di ogni colore, e non solo neri come si presenta per lo
più un normale scarabeo coprofago, sono diffusi e vengono ancora ritrovati
negli scavi archeologici, lungo il Nilo e in tutte le aree intorno al
Mediterraneo in cui si erano estese la cultura e l’influenza dell’antico
Egitto.
Nella Grecia classica Aristofane
narrava del passatempo dei ragazzi di far volare uno scarabeo d’oro legando
la sua zampetta a un lungo filo: un gioco tramandato per secoli e secoli,
arrivato ai giorni nostri nelle campagne, dove la cattura e osservazione di
uno scarabeo d’oro conserva ancora il valore ludico del gioco all’aria
aperta, tutto sommato sano e innocente… Mezzo secolo fa, allorché i giovani
dell’Italia agropastorale non venivano ancora assorbiti da distrazioni come
televisione, cellulari e motorini, era facile incontrare tra viali di tigli
e ligustri, cespugli di rose e siepi di sambuco, torme di ragazzi vocianti
con in mano uno spago, cui era appesa la loro brava cetonia ronzante. E il
bello è che nelle varie località, anche non troppo lontane tra loro, a
quest’insetto venivano attribuiti nomi dialettali diversi – come per esempio
“zagarolo” nella placida Ciociaria - , segno evidente che si trattava di
abitudini di origine antica, poi evolutesi separatamente nel corso del
tempo.
Anche nella Roma antica gli
Scarabei venivano presi in considerazione, ma per ben altri motivi: le loro
grasse larve, infatti, insieme ai bruchi di certe farfalle rodilegno, erano
molto ricercate per scopi commestibili, e apprezzate come vera e propria
ghiottoneria. Il valore alimentare dei coleotteri, e degli insetti in
genere, ancorché sdegnato dalla nostra civiltà occidentale, non va davvero
trascurato: e non è mancato neppure chi, come l’inglese Vincent Holt nel
1885, abbia pubblicato un’opera dal titolo significativo: “Perché non
mangiare insetti?”. Potrebbe sembrare soltanto un’arguta provocazione, come
quella del raffinato ristorante di Londra che anni fa guadagnava fama
offrendo pietanze e dessert a base di insetti di vario genere. Ma è
piuttosto il riflesso di una realtà ben più vasta, perché viaggiando per il
mondo, soprattutto nell’Estremo Oriente e nell’America Latina, si scoprono i
menu e pasti più disparati: sia a base di ortotteri e lepidotteri, che di
coleotteri, con gli scarabei naturalmente in primissimo piano. Del resto,
fino al secolo scorso abitudini del genere sopravvivevano anche da noi: e
l’amico entomologo Giovanni Binaghi raccontava nel 1951 nel suo libro
Coleotteri d’Italia d’aver da giovane assistito in Brianza a giochi di
ragazzi che a fine giugno, all’imbrunire, si divertivano a catturare i
Rhizotrogus, togliendo loro le elitre e le ali, per poi mangiarne
il grasso addome che trovavano appetitoso e dolciastro.
***
NEL NOME
DELL’INSETTO
Spetta al
grande Carlo Linneo il merito d’aver pubblicato nel 1735 il poderoso
Systema naturae: creando così un metodo efficace di
individuazione, denominazione e classificazione degli esseri
viventi, dalle piante inferiori fino agli animali superiori, e allo
stesso Homo sapiens. Una visione basata sulla classica
lingua latina, ma all’epoca molto innovativa: poi universalmente
recepita e ancor oggi utilizzata in ogni parte del mondo. Senza
questi nomi non vi sarebbero riferimenti attendibili alla realtà
vivente, nè sarebbe possibile la comunicazione continua, su cui si
sviluppa il progresso della scienza e della conoscenza.
Dopo Linneo
una legione di naturalisti, esploratori e viaggiatori si è lanciata
alla scoperta delle forme di vita animale più disparate in ogni
angolo del pianeta: riempiendo di nomi non sempre comprensibili le
pagine dei cataloghi di fauna e flora. Nomi spesso evocativi della
cultura classica ed ellenistica un tempo in auge: come i grossi
Coleotteri Ercole, Golia, Titano, Atlante, Nettuno… O altre volte di
matrice latina nettamente zoologica, come i Lamellicorni
Rinoceronte, Elefante, Cervo, Capriolo, Giraffa… O da semplici
descrizioni dell’aspetto dell’insetto agognato e ammirato, come
splendida, mirifica, mirabilis,
sumptuosa, fulgidissima, oppure
giganteus, auratus, regius,
imperator . E via nominando… Ma poi, con il moltiplicarsi
delle scoperte, è cresciuto il ricorso a nomi propri di persona,
ispirato da rispetto e riconoscenza, affetto e convenienza, o da
mille altre ragioni.
Da quel tempo
ai giorni nostri, si calcola siano state descritte circa 350-400
mila specie diverse di Coleotteri, alla media di 5 al giorno: ma
certamente il nostro pianeta ne ospita molte di più, sfuggite per le
abitudini insolite o celate nei luoghi più remoti. Specie che oggi
rischiano di scomparire, prima ancora che siano state osservate,
studiate e denominate.
Negli ultimi
decenni tuttavia la sistematica è cresciuta incessantemente, e la
corsa alla descrizione delle nuove specie (talvolta già dotate di
altro nome) si è fatta frenetica. A mano a mano che la scienza
progrediva, i nomi aumentavano e diventavano indecifrabili,
molteplici, sovrapposti, talvolta non condivisi… E si verificava un
fenomeno imprevisto, capace di disorientare: la frammentazione della
nomenclatura e la moltiplicazione delle entità tassonomiche: e cioè
la divisione di una specie in molte specie, di un genere in molti
generi, e via dicendo.
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La
Biodiversità planetaria espressa dal cosiddetto “Speciscapo”,
una speciale Tavola simbolica in cui le dimensioni di
ogni organismo vivente rappresentano la quantità di
specie comprese nel suo gruppo: Cervo volante, Faggio,
Acaro, Fungo, Conchiglia, Lombrico, Orso bruno, Aquila
reale e via dicendo.
Immagine tratta da F.Tassi, Le meraviglie volanti,
Rivista D’Abruzzo, Pescara Ideazione di Franco Tassi,
Illustrazione di Stefano Maugeri |
Ma anche il
progresso scientifico e tecnologico faceva la propria parte,
influenzando l’osservazione e la classificazione degli animali e
delle piante. Nel campo zoologico, se dapprima l’attenzione si
rivolgeva soprattutto alla morfologia esterna, si passò poi a quella
interna, e quindi ai caratteri degli organi di riproduzione. Si
affermarono più tardi l’indagine elettroforetica e genetica, senza
dimenticare l’ecologia e l’etologia, su cui le conoscenze
progredivano rapidamente. Il lavoro di studio e determinazione
diventava tanto complesso, da richiedere maggiore specializzazione:
ma ciò inevitabilmente causava la perdita di una percezione
interdisciplinare, intersettoriale, olistica, forse meno
dettagliata, ma ben più ampia ed equilibrata. C’era anche chi si
spingeva a suddividere un solo genere in quasi in altrettanti
generi, quante erano le specie prese in considerazione: dimenticando
però che in questo modo languiva la comunicazione, e si annebbiava
ogni visione d’insieme.
Ma intanto si
perdeva di vista un aspetto fondamentale del problema: mentre le
specie di insetti aumentavano, diminuivano gli entomologi. Al punto
da indurre una rivista autorevole come New Scientist a lanciare,
qualche anno fa, un motivato allarme, data l’evidente impossibilità
di studiare adeguatamente tutta la biodiversità esistente, e
soprattutto quella di recente scoperta. E allora come non chiedersi
se la responsabilità di tanta disaffezione non risiedesse proprio
nella eccessiva specializzazione, nella complicazione dilagante e
nella carenza di assistenza e divulgazione pratica, che finivano con
lo scoraggiare anche i giovani più volenterosi, curiosi e dotati?
Come non comprendere che la barriera posta da certi accademici verso
i dilettanti, cui va riconosciuto il valore di vera colonna portante
dell’entomologia, non avrebbe portato che a risultati nefasti?
Ciò di cui
senza dubbio si avverte ormai la necessità è un repertorio di
definizioni certe, revisioni generali e precise regole di
nomenclatura, preferibilmente non troppo complicate, e con
cambiamenti meno frequenti. Non va infatti dimenticato che il
concetto di genere, ancor più di quello di specie, rappresenta un
raggruppamento abbastanza soggettivo, rientrante molto nella
discrezionalità dello studioso. Assai meglio sarebbe quindi
considerare quei prodotti della frammentazione come semplici
sottogeneri: egualmente utili, ma molto meno dirompenti.
Qualcuno
potrebbe obiettare che tra le due categorie alternative (genere o
sottogenere?) non vi è troppa differenza: invece, non è proprio
così. A dimostrarlo, basterebbe una semplice considerazione. Verso
la metà del secolo scorso, un bravo naturalista poteva guidare un
gruppo di persone interessate in campagna, riconoscendo gran parte
degli animali e delle piante senza aver bisogno di manuali e
trattati, né di microscopi e manipolazioni. E nella maggior parte
dei casi riusciva a pronunciare con sicurezza almeno il nome del
genere, che restava così ben impresso nella memoria collettiva. Oggi
tutto questo non è più possibile, perché talvolta per arrivare ad
identificare il genere occorrerebbero analisi più approfondite, e la
vera comunicazione istantanea, dal vivo, importante e coinvolgente,
resta monca o svanisce del tutto. Segno evidente che ai naturalisti
di campo vanno sostituendosi sempre più quelli da tavolino, e che
senza una svolta decisiva si rischia di cadere nella confusione
totale.
Beninteso, va
anche ribadito che i nomi degli esseri viventi restano
insostituibili e assurdo sarebbe rimpiazzarli con un numero di
codice e un codice a barre, compatibili con un programma
informatico, come qualcuno è arrivato a pretendere. Sono
certo essenziali per la comprensione della grande ricchezza e
varietà della natura perché, come affermava Linneo, “nomina si
nescis, perit et cognitio rerum” (=se non conosci i nomi,
perdi anche la cognizione delle cose). Ma sarebbe troppo pretendere
nomi chiari e comprensibili, idonei a far parte di un linguaggio
scritto e parlato? Come altri hanno giustamente osservato,
“nomina non sunt multiplicanda, aliter maxima confusio regnat”
(=i nomi non vanno moltiplicati, altrimenti regna la massima
confusione). Un principio aureo, applicabile soprattutto alla genesi
e riorganizazzione dei generi…
Viene allora
da chiedersi se non sia giunto il momento di rivedere la filosofia e
le regole della sistematica moderna, intraprendendo uno sforzo non
lieve per il “consolidamento” della nomenclatura, con nomi e
linguaggi unitari, condivisi e comuni. Potrebbe sembrare utopia, ma
mentre gli zoologi vacillano, i botanici stanno già da tempo
provvedendo. Impegnando le risorse migliori, dai Royal Botanical
Gardens di Kew (UK) ai Missouri Botanical Gardens (USA): perché
“senza nomi accurati il sistema delle conoscenze botaniche
sprofonderebbe nel caos”, ed è necessario ridurre le terminologie in
uso, evitando ripetizioni e sovrapposizioni. In questo modo, i nomi
delle specie vegetali in circolazione è ridotto a meno della metà, e
lo stesso potrebbe avvenire un giorno per gli insetti e gli altri
animali.
E forse verrà
il tempo in cui si perverrà anche alla sospirata “armonizzazione”
tra la nomenclatura botanica e quella zoologica (non trascurando
ovviamente quella paleontologica), attualmente sorrette da regole
diverse, spesso divergenti, talvolta in conflitto (come dimostrano i
casi di omonimie di generi di piante e animali, in cui nessuno dei
due grandi regni intende cedere il passo). Perché è giusto chiamare
ogni essere vivente con un nome: ma questo nome deve sempre essere
esclusivo, inconfondibile, diverso. |
Se lo scarabeo sacro resta
incontestabilmente l’icona venerata nell’antichità, nel Medioevo e nel
Rinascimento una nuova immagine compare tra mito, superstizione e leggenda,
e poi lo sostituisce gradualmente: quella inconfondibile del Cervo volante.
Al quale viene attribuito ogni genere di proprietà positiva e negativa:
portafortuna con proprietà curative, capace di allontanare malanni e
disgrazie, oppure uccello del malaugurio, piromane capace di incendiare le
case… Infinite sono le sue raffigurazioni nell’arte, nelle illustrazioni e
nelle decorazioni, come si scopre osservando con attenzione negli angoli di
famosi dipinti, come quelli di Albrecht Duerer e Jan Bruegel. E se questo
Coleottero dalle lunghe corna (si tratta in realtà di enormi mandibole) veniva in antico chiamato anche bue xilofago,
o assimilato nella forma a uno strumento musicale come la lira, il suo
aspetto che evocava la sagoma di un maestoso maschio di cervo messaggero
degli dei indusse la religione cattolica a vedervi anche un simbolo sacro,
simile a quello con il crocefisso tra le corna, che portò alla conversione
di Sant’Eustachio e Sant’Uberto.
Interessante sarebbe cercare di
comprendere le vere ragioni di questo cambiamento storico, vere e proprie
“mutazioni entomologiche” legate all’evoluzione della cultura. A quei tempi,
la società umana era assai più legata alla terra, e in simbiosi con la
natura, di quanto non avvenga oggi. Si vedevano da vicino e si potevano
toccare animali e piante, si cercava di capirne ritmi e valori, si
attribuivano qualità e proprietà, e comunque si era sempre alla ricerca di
simboli e significati. Per la civiltà Egiziana legata a territori aridi e
caldi, la natura poteva presentarsi nella veste di uno Scarabeo che
incessantemente rotola la sua pillola catabolitica. Ma l’ambiente
dell’Europa ammantata di dense foreste era ben diverso, e produceva Cervi
volanti di impressionante grandezza (un maschio di massime dimensioni può
raggiungere 8 cm di lunghezza, ed è dunque il più grande Coleottero del
continente). Logico quindi pensare che gli spettasse il titolo di nuovo
emblema entomologico della vera natura.
Nell’epoca moderna, a suscitare
crescente interesse per gli Insetti fu il talento del grande entomologo e
narratore Jean-Henri Fabre, celebrato come “osservatore inimitabile”, “poeta
della scienza” e “Omero degli insetti”. Antesignano di discipline future
come l’ecologia e l’etologia, con le sue ricche, pazienti e profonde
ricerche, che nel 1878 riunì nell’opera “Ricordi di un Entomologo”, egli
influenzò profondamente tutta la cultura e la scienza dell’Ottocento. Apprezzato
oggi assai meno di quanto meriterebbe, Fabre resta però un vero mito in
terre lontane come quelle del Sol Levante: e non sono pochi i giapponesi che
giungono in Europa in devoto pellegrinaggio, per visitare la piccola
casa–laboratorio di Serignan in Vaucluse, dove egli visse e lavorò per molti
anni.
Ai tempi d’oro dell’entomologia, e
soprattutto nella Francia degli ultimi due secoli, la ricerca degli Insetti,
e soprattutto quella degli Scarabei più rari e delle Farfalle più vistose
aveva assunto il carattere di una vera corsa all’oro, con il coinvolgimento
quasi maniacale tipico di un certo collezionismo, facendo prosperare un
originale mercato, e sviluppare un commercio che aveva contatti con ogni
parte del mondo. E spesso il progresso delle conoscenze si è basato anche su
esplorazioni ripetute, scoperte inattese o rinvenimenti casuali ad opera di
sconosciuti raccoglitori locali.
L'incontro
con un Coleottero nuovo
e insolito, che sia grande, raro e splendido oppure piccolo e all’apparenza
insignificante, può donare all’entomologo emozioni simili a quelle
dell’archeologo che, dopo anni di vane ricerche, scopra d’improvviso la
tomba d’un re o le rovine d’una antica città scomparsa. Ed è difficile oggi
immaginare quale fremito di impressioni suscitasse nel mondo degli studiosi
e ricercatori un evento del genere, in un’epoca in cui la cultura svolgeva
nella società un ruolo davvero preminente.
***
Ma anche il ritrovamento di
Scarabei meno preziosi, magari attesi a lungo cercando di carpire
qualche segreto della loro esistenza, può costituire per il vero
naturalista un evento magico e irripetibile. Ore al sole, anelando
l’avvistamento di una brillante Potosia speciosissima, agguati serali
alla ricerca del Cervo volante. Perlustrazioni tra i cespugli
variopinti, sulle infiorescenze della cupola dei castagni, o sui tronchi
decrepiti e cavi per individuare, riconoscere e magari soltanto annotare
e fotografare una Cetonia insolita o un elusivo Gnorimo. Giornate
indimenticabili, scrutando tra il verde delle foglie e l’azzurro del
cielo, tendendo l’orecchio alla musica della primavera che esplode
tutt’intorno, sobbalzando a ogni fremito d’ali e cogliendo bagliori di
autentica vita spontanea. E poi pause di riflessione per prendere
coscienza del fatto che, come affermava Gaston Bachelard,
“l’infinitamente piccolo, attraverso uno stretto passaggio, apre a un
intero universo”.
Chi scrive ebbe la fortuna di
ammirare, negli anni passati, spettacoli magici e sorprendenti, che oggi
sarebbe difficile rivedere: come il volo radente della Potosia squamosa
nei solitari prati steppici del Gargano, o le altissime evoluzioni della
Polifilla fullo sulle cupole dei pini a ombrello presso le rive del
Tevere; e il puntuale arrivo crepuscolare di centinaia di Melolontini,
immancabile ogniqualvolta ci si appostasse nel luogo giusto al principio
dell’estate. Ha colto, arrampicandosi sui plurisecolari platani di Villa
Borghese, l’inconfondibile profumo dell’Osmoderma eremita, e trasalito
incontrando il raro Ceratofio del Rossi in zone dove non se ne
sospettava la presenza. Ha inseguito Anomale, Antipne e Callicnemi per
ogni dove, e talvolta goduto di meraviglie uniche… Come quando nella
Maremma Toscana, in una serena mattina del giugno 1966, venne attratto
magneticamente da uno strano boschetto di sughere annose e contorte: e
sgranò gli occhi trovandosi di fronte a grappoli di Potosie policrome
che suggevano la linfa degli alberi, tra cui spiccava il violetto
impareggiabile della Potosia mirifica (che all’epoca
veniva ancora chiamata koenigi, e pochi credevano fosse
davvero presente in Italia). O come quando, alle falde del Kilimanjaro,
Scarabei di ogni specie arrivavano a frotte dopo le piogge, attratti a
valanga dalle lampade del campo nel Parco Nazionale Tsavo. Senza dire di
una notte in Costarica, quando con un ronzìo da aereo superleggero una
enorme femmina di Megasoma si gettava frenetica verso la luce, e
piombava senza scampo a due passi da lui, nella piscina dell’albergo. Ma
la sorpresa più grande fu forse scoprire negli ultimi lembi di selva
tropicale dell’Australia nordorientale un Lamellicorne abbagliante come
il Cervo volante arcobaleno, del quale neppure sospettava l’esistenza.
***
Eppure questi insetti
numerosissimi, adattabilissimi, inafferrabili, secondo gli scienziati i
veri “dominatori del mondo” stanno pian piano scomparendo, rarefacendosi
e rischiando l'estinzione come ogni altra specie animale e vegetale del
pianeta. Proprio in quest’epoca detta “antropocene” le nostre
generazioni vivono quasi inconsapevolmente – e irresponsabilmente –
l’eclisse della varietà e ricchezza della natura, sopraffatte da
progresso e modernizzazione, sviluppo e tecno-scienze che non sembrano
guardare più lontano dell’immediato. La rottura degli equilibri
ecologici sembra più grave e preoccupante che nei secoli precedenti, e
le trasformazioni che ne derivano potrebbero essere irreversibili.
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Potosia
mirifica |
Il primo allarme accorato per
la scomparsa degli insetti venne lanciato nel 1992 dall’americana Rachel
Carson con il libro “Primavera silenziosa”, che impressionò il mondo
intero denunciando il folle avvelenamento straripante che stava
invadendo le campagne. Il rifiuto e fastidio manifestati dalla parte più
egoista e miope della società, che cercò di far passare l’autrice per
una visionaria, non bastò a fermare la ribellione contro gli
avvelenamenti, e poco a poco la verità venne a galla. Le denunce si
moltiplicarono, e le vere cause vennero individuate e dimostrate una
dopo l’altra, dalla devastazione degli ambienti all’uso scriteriato di
ogni genere di pesticidi. Si incominciò a parlare di lotta biologica e
integrata, vennero scoperti gli effetti nefasti delle eccessive
monocolture.
Oggi nessuno oserebbe mettere
in dubbio quell’appello, molti rimedi e sistemi alternativi sono stati
sperimentati o sono allo studio, ma i processi distruttivi sembrano più
rapidi delle efficaci misure di conservazione, e sembra di assistere a
una vera e propria “corsa contro il tempo”. Perché le analisi
scientifiche a danno avvenuto mettono in luce, con chiarezza e
inoppugnabilità, molte conseguenze, ma non sembrano sufficienti a
spiegare, e tantomeno ad arrestare, il fenomeno della scomparsa degli
insetti. Pochi si chiedono cosa producano sugli ecosistemi non solo gli
inquinamenti di natura chimica, ma anche quelli di natura fisica:
sonoro, luminoso, elettromagnetico e via dicendo. E nessuno è in grado
di stabilire quali siano gli effetti generali a medio e lungo termine
delle polveri sottili, della mineralizzazione dei suoli, della
radicalizzazione delle stagioni e dei cambiamenti climatici… E
soprattutto imprevedibili e indecifrabili sono le nefaste combinazioni
fra più fattori, come un solo caso recentissimo, quello delle api negli
Stati Uniti d’America, ha riscontrato chiaramente individuando un virus
e un microfungo come principali responsabili: colpevoli senza appello,
ma forse non da soli? In fondo, è come se nel pianeta Gaia fossero
crollate le difese immunitarie, e l’uomo colpevole di questo male,
anziché cambiare cure, stia perseverando nell’eccessivo sfruttamento di
tutte le risorse della Terra.
***
E’ impossibile amare qualcosa
senza conoscerla, e non si può difenderla se non la si ama davvero. Il
riscatto della natura passa attraverso la mente dell’uomo, e ogni tempo
e risorsa dedicati alla cultura, all’esperienza e alla presa di
coscienza rappresentano per ciascuno di noi, e per la stessa società in
cui viviamo, il più lungimirante investimento per un avvenire migliore. Quest’opera non potrà certo risolvere i problemi ecologici attuali, ma
anche un piccolo contributo, animato dalla sincera passione e dalla
forza delle idee, è senza dubbio importante. Questa in fondo è la
segreta speranza di ogni naturalista, questa è la vera “missione” delle
Piccole Faune.
Roma, Ottobre 2010
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Franco Tassi
Docente di Conservazione Natura
ed Ecologia Applicata
Comitato Parchi - Centro Studi |
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